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Redazione

ESSERE UMANI, ALL’INFINITO.

Aggiornamento: 20 mag

By Federico Moroni

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Un corpo, inserito in un determinato spazio, può avere relazione con altri corpi e con il tempo, il quale determina la qualità dell’interazione stessa.


Protagonisti di una società frenetica e veloce, purtroppo non ammettiamo troppi approfondimenti con ciò con cui ci relazioniamo per la prima volta: fissati i nostri interessi e le nostre priorità, il resto è molto sbrigativo e non lascia tempo ad analisi approfondite all’interno della quotidianità.

Ogni giorno siamo abbondantemente occupati a pensare alla gestione delle nostre necessità, siano esse economiche o affettive, o anche di svago e distrazione, da esaurire la capacità di dedicarci all’osservazione e alle relazioni con gli altri.

Il rischio è quello di essere persone superficiali, che si fermano al primo giudizio, poiché questo è il modo più veloce per arrivare all’idea che già abbiamo fissato alla prima interazione.

Marc Quinn, You take my breath away, 1992


Tuttavia, secondo la concezione Hegeliana - in cui la realtà è rappresentata come un organismo unitario di cui tutto ciò che esiste è parte di essa e l’unica cosa che è importante è la completezza della verità e non la parziale osservazione - esiste una soglia, come se fosse una porta, da cui è possibile raggiungere la massima profondità di qualunque entità. Una soglia che rappresenta l’inizio e la fine, l’interno e l’esterno, che dà accesso a singolarità diffuse: la superficie.


Esplorare il corpo

Il concetto di superficie ha un contorno pressoché geometrico, ma è un sostantivo molto trasversale che può essere declinato in diversi modi.

Da un punto di vista antropocentrico identifica la parte del nostro corpo che più di tutte ci rende immediatamente visibili agli altri, spesso portando l’osservatore ad azzardare delle conclusioni affrettate o dei giudizi, frutto di ideologie personali, che modificano la parola superficie in superficiale.


Olran, arte contemporanea, performance

Ph. Orlan, Omnipresence, Surgery-Performance,1993, New York. Courtesy: the artist


Pensando al ruole del corpo nell'arte contemporanea, la sottile soglia tra superficie e superficiale è ben discussa nel mondo della body art e della performance: artiste come Orlan o Gina Pane tramite modifiche più o meno violente, hanno raccontato di come il corpo possa innescare delle interazioni in modo da avvicinare l’osservatore alla superficie rendendo questa soglia molto sottile. La domanda che viene da porsi quindi è: come giudichiamo la loro azione? Se non analizzassimo il contesto culturale e la storia staremmo proprio giudicando in maniera superficiale.

Che poi essere superficiali è più che altro una scelta dettata da questioni culturali, di insegnamento o anche di scarsa curiosità; è attraverso la superficie che infatti si raccontano le più belle storie: quello che siamo o quello che vorremmo essere, i nostri sogni e i nostri bisogni. Bisogni che sappiamo rispecchiarsi nel mondo dell’arte e del design, che sebbene interpretino la loro funzione in maniera differente - l’arte è soggettiva mentre il design è univoco (ndr) - hanno nell’osservazione della superficie il loro biglietto da visita.


Toccare la superficie

Da un punto di vista progettuale la superficie è destinata a raccogliere il contenuto dell’opera creando un limite ed un orientamento, delimitando un esterno ed un interno che hanno la medesima importanza e che hanno un’ampia possibilità di azione attraverso il corpo. L’opera Compression Carpet dell’australiana Lucy McRae, fa luce sui propri bisogni oltrepassando la superficie fino ad arrivare ad analizzare il nostro benessere e ciò che serve a raggiungerlo. L’artista si è immaginata un futuro in cui il crescente afflusso di tecnologia avrebbe avuto un grande impatto sulla nostra salute mentale, portandoci ad una crisi di contatto che richiede interventi che soddisfino i bisogni fisici ed emotivi della società.


Lucy McRae, arte contemporanea

Lucy McRae, Future Survival Kit-Compression carpet, 2019. Photo: Scottie Cameron


D’altronde il tatto è il primo senso che sviluppiamo, quando ancora ci troviamo all’interno del grembo materno, e l’opera ci rimanda indietro cercando sollievo nelle connessioni più intime. Il risultato è un’esigenza psicologica che si manifesta sulla superficie materiale di una macchina che agisce grazie alla meccanizzazione di cuscini di colore rosa in materiale espanso che comprimono il corpo di chi ne usufruisce. Anche se, all’apparenza può trasmettere una sensazione quasi negativa di disagio, la realtà è che l’opera ci rimette in connessione con l’esigenza primordiale del contatto e del conseguente sollievo.

La sensazione è che ci troviamo davanti a un’opera generatrice, che non ha bisogno semplicemente di un corpo ma di una nuova razza: una vita che ha scavalcato la naturale concezione del corpo nel grembo materno, che ha superato quel passaggio, perdendolo e sentendo l’esigenza di recuperare quella sensazione. E’ la stessa architettura dell’opera a suggerirlo: è forse un caso che i materiali scelti siano espansi soffici e colori naturali come quello della pelle?

Lucy McRae, arte contemporanea

Lucy McRae, Future Survival Kit-Compression carpet, 2019. Photo: Scottie Cameron


Oltrepassare la superficie

Sotto la superficie invece, il nostro corpo racchiude uno spazio di speculazione infinito.

I bisogni trattati poco fa diventano necessità imprescindibili.


Interessante da questo punto di vista è il lavoro dell’artista Jes Fan che rivolge la sua ricerca alla pelle come un confine che nasconde un vasto mondo interno inestricabilmente legato alle nostre ipotesi di identità. Fan lavora con due tipologie di materiali: alcuni come resine o siliconi che rende simili alle sembianze del corpo, altri come le sue stesse escrezioni, ormoni sessuali come testosterone o estrogeni, sangue e sperma.

L’artista in questo caso realizza le sue opere utilizzando parti, o meglio scarti del corpo come dei semilavorati, mischiandoli per raccontare il proprio processo. Uno stato di confusione, di mutazione continua che viene bloccato e raccontato grazie alla lavorazione del vetro.

Jes Fan, Function Begets Form (detail), 2020. Courtesy: the artist and Empty Gallery, Hong Kong. Photo: Lance Brewer


L’esercizio di Jes Fan è qualcosa di incredibilmente politico. L’artista infatti lavora con quelle sostanze ormonali, o ormoni, ottenuti da scarti come l’urina che sostengono delle determinate categorie di identità, arrivando a rendere la sua opera commercializzabile in quanto contenitore di individualità.


Jez Fan, arte contemporanea

Jes Fan, Function Begets Form, 2020. Courtesy: the artist and Empty Gallery, Hong Kong. Photo: Lance Brewer


E’ opportuno sapere che l’artista ha affrontato e sta affrontando un processo di transizione di genere, aspetto fondamentale per capire meglio il processo di lavorazione del vetro. Cambiare sesso equivale ad una trasformazione, cosi come soffiare e levigare una superficie di vetro: da un lato si modifica il corpo, e dall’altro si modifica la scultura vetrosa in una trasformazione fluida e perpetua. Nelle opere dell’artista il testosterone, gli estrogeni o la melanina vengono iniettati nel vetro esattamente come verrebbero iniettati nel corpo. Il risultato consiste in una serie di sculture vetrose dalla forma e dalla struttura organica, che diventano contenitori di sostanze biologiche, naturalmente visibili come piccoli globuli e macchie all’interno del vetro. Piccole macchie appunto, che quasi sporcano la trasparenza del vetro, ma quelle gocce sono veramente così banali?




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