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CIRCULARITY ON THE EDGE, MACERIE O RISORSE?

  • Immagine del redattore: Redazione
    Redazione
  • 22 ott
  • Tempo di lettura: 5 min

By Salvatore Ponzo


Nel cuore della devastazione di guerra, dove distruzione e perdita sembrano dominare, emerge un progetto che rovescia la prospettiva: non solo ricostruzione, ma rigenerazione, non solo smaltimento, ma riutilizzo. Circularity on the Edge, curato da Kateryna Lopatiuk e Herman Mitish insieme al team di ReThink, è un’installazione-ricerca presentata alla Biennale di Architettura di Venezia 2025 che usa intelligenza artificiale, dati dronici, materiali fisici e memoria per interrogarci su un tema urgente: cosa significa ricostruire in una zona di guerra, e con quali criteri?


Varie texture di metallo, legno e cemento su sfondo a griglia, etichettate con dimensioni e pesi. Testo e scala di misura visibili.

courtesy: Circularity on the Edge


Gli obiettivi di "Circularity on the edge".

Nato nel cuore del conflitto russo-ucraino, con un focus specifico sulla martoriata città di Bucha, Circularity on the Edge ha l'ambizione di documentare e re-immaginare il processo di ricostruzione, perseguendo tre obiettivi strategicamente intrecciati.


Il primo è l'analisi automatizzata del potenziale materiale. Attraverso un sistema che combina riprese drone e algoritmi di AI, il progetto non si limita a fotografare le macerie, ma le interroga, imparando a distinguere tra un cumulo di mattoni, una lastra di cemento armato, un groviglio di travi metalliche o la minaccia silenziosa dell'amianto. L'obiettivo è chiaro: stabilire con precisione scientifica quale percentuale di quello che appare solo come detrito possa, in realtà, essere reimmessa in sicurezza nel ciclo edilizio, trasformando lo scarto in risorsa.


Questa mappatura non resta un esercizio accademico, da qui il secondo obiettivo: trasformare i dati in uno strumento condiviso per la ricostruzione. Il sistema è progettato per generare un database aperto e scalabile, una cartografia dinamica del potenziale materiale a disposizione di chi, sul campo, dovrà prendere decisioni: comunità locali, progettisti, enti governativi. Diventa così una piattaforma decisionale che fonda le scelte progettuali sull'inventario reale del territorio, promuovendo un modello di ricostruzione non calato dall'alto, ma informato e partecipato.


Infine, consci della portata tecnica e profondamente umana e culturale della sfida, il team ha concepito l'installazione come un'esperienza sensoriale e riflessiva. È qui che i dati e i materiali trovano la loro sintesi più potente. Frammenti fisici prelevati dai siti distrutti di Bucha dialogano con proiezioni di dati, audio e giochi di luce, dando corpo e sostanza alla memoria dei luoghi. Un dispositivo che costringe a confrontarsi con la materialità del trauma e, simultaneamente, con il suo straordinario potenziale di trasformazione, ponendo al visitatore la domanda etica fondamentale: cosa ci portiamo dietro e cosa, invece, abbiamo il coraggio di far rinascere?


L’AI come strumento di analisi.

Il cuore operativo del progetto è l’AI. Il training del modello richiede un’ampia varietà di dataset, perché le condizioni delle macerie sono mutevoli: la polvere, il degrado, la vegetazione che ricopre le rovine rendono più complessa la lettura automatica. Tuttavia, nonostante le difficoltà, i primi risultati hanno dimostrato che una parte significativa dei materiali presenti negli edifici distrutti può essere recuperata. Si stima che quasi la metà delle macerie della città possa essere riciclata o riutilizzata, mentre una piccola percentuale necessita di trattamenti specifici o di smaltimento controllato.


Oltre la classificazione.

Non è sufficiente sapere che un materiale è presente, ma occorre stabilire se sia integro, se sia contaminato, se possa tornare in sicurezza nel ciclo edilizio. A complicare il quadro c’è anche l’accessibilità fisica delle aree analizzate, spesso minate o instabili. In questo senso, l’uso dei droni riduce i rischi ma non sostituisce la necessità di un riscontro diretto. Inoltre, la varietà dei materiali edilizi cambia da regione a regione, e ciò che viene riconosciuto e recuperato a Bucha potrebbe richiedere nuovi parametri in altre città. L’AI, perciò, non è uno strumento neutro: va calibrato, adattato e sostenuto da un’infrastruttura logistica capace di trasportare, trattare e certificare i materiali individuati.


courtesy: Orest Yaremchuk, Circularity on the Edge


Cultura, società e ambiente.

La forza di "Circularity on the Edge" non si esaurisce nella dimensione tecnica. Recuperare le macerie significa anche preservare frammenti di memoria. Ogni pezzo di muro, ogni lastra di cemento porta con sé la testimonianza di una vita, di un luogo, di un momento storico. Rigenerare, oltre ad essere un gesto economico e ambientale, è anche un atto di riconciliazione con il passato, un modo per non cancellare del tutto ciò che è andato distrutto.

Allo stesso tempo, ridurre la quantità di nuovi materiali richiesti per la ricostruzione rappresenta un contributo decisivo in termini di sostenibilità: meno cave da aprire, meno trasporti, meno emissioni. La circolarità, in questo contesto, è un concetto tutt'altro che astratto; è una necessità ambientale che si traduce in resilienza sociale; poichè in aree segnate dalla scarsità di risorse, la possibilità di attingere direttamente alle macerie come riserva edilizia diventa strumento di equità e di autonomia per le comunità locali.


Diagramma "Circularity on the Edge" che mostra la composizione materiale di un edificio. I dati sono suddivisi in categorie manuali, con "Metal Shores" (30.6%) e "Strong" (23.3%) come componenti principali. Sono presenti anche sezioni su classificazione legale, ubicazione e tipo di edificio.

courtesy: Circularity on the Edge


Dalla metafora alla pratica.

È qui che sorge il primo, grande dubbio. Tutto questo non rischia di restare una potente metafora visiva, confinata nel recinto sacro di una biennale? La domanda è lecita. Perché la circolarità diventi realtà, servono normative chiare che autorizzino il riuso di materiali da guerra, soprattutto se potenzialmente contaminati. Servono investimenti: riutilizzare non è automaticamente più economico che costruire ex-novo. Serve una filiera dedicata: trasporti, trattamento, certificazione.


Un'altra questione sorge poi spontanea, più sottile e profonda: quella della memoria. Ridurre le macerie a "risorsa" non è un atto di oblio? Non si rischia di banalizzare il trauma? L'installazione stessa sembra cercare una risposta, accostando il rigore dei dati alla fisicità commovente di un frammento di muro. Il recupero, suggerisce, non deve essere cancellazione. Può essere un modo per incorporare la memoria nel futuro, per non disperdere del tutto l'identità di un luogo.


Oltre l'Ucraina.

L’orizzonte di Circularity on the Edge non si esaurisce nel dolore ucraino. La sua intuizione più profonda risiede nel riconoscere una verità universale: le macerie, in qualunque forma si presentino – che siano il silenzio tombale della guerra, la violenza tellurica del sisma o la furia dell’acqua –, condividono una stessa, tragica materialità. Sono la fine di un mondo. E proprio lì, in quel punto zero, il progetto scardina il paradigma emergenziale. Sposta l’asse della riflessione dall’interrogativo temporale – quando si ricostruirà? – a quello, ben più radicale, del metodo: come daremo forma al dopo?

Adottare una visione circolare non è una mera opzione tecnica; è una scelta di campo economica, ambientale e, in definitiva, politica. Significa convertire lo spreco in risorsa, il costo di smaltimento in investimento, il lutto in memoria attiva. Significa restituire a un territorio la sua dignità, fondando il futuro non su un oblio comodo, ma sulla trasformazione consapevole della sua stessa ferita.


immagine dell'installazione di Circularity on the edge alla Biennale di Venezia 2025

courtesy: Circularity on the Edge, Biennale di Venezia, Pragmatika


Questo esperimento, che intreccia con audacia il linguaggio dell’arte, il rigore della tecnologia e la profondità dell’etica, è dunque molto più di un’installazione. È un prototipo di pensiero. Il suo banco di prova non sono le luci dei padiglioni veneziani, ma l’aspro cantiere delle città cancellate. Se quel seme attecchirà, se la sua logica saprà radicarsi nel fango delle realtà devastate, non avremo semplicemente aggiunto un nuovo capitolo alla manualistica della ricostruzione. Avremo scritto una grammatica nuova per la rinascita, il cui primo, indispensabile lemma è ciò che agli occhi di tutti ancora appare come irrimediabile rovina.

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